Persefone esce dal Tartaro per reiterare l’annuale ritorno sulla terra. Demetra l’attende. Ade l’insegue. Sfinita dall’eterna
divisione tra il desiderio di un uomo che la trattiene nel mondo delle ombre e una madre (doppio di sé) che la reclama alla vita, per far maturare i campi d’orzo, Persefone dimentica il suo compito. Il suo ventre nel mondo delle ombre rimane sterile, mentre quello della madre, doppio di sé, partorisce ogni anno, grazie a lei. Ella allora, prende coscienza del suo corpo sterile eppure fecondatore, del desiderio che la minaccia senza darle piacere. Il suo nome le dà senso e coraggio. Lei è pharo-phonos “colei che porta la distruzione”, niente più di questo. Il corpo-donna si ribella al mito e conquista uno spazio, una “no man’s land” tra la vita e la morte.
non esiste una vera posizione del piacere
il fiato sul collo è il mio
le mani sul ventre sono le mie
le dita nel mio utero cercano con misura
una piega tra la pelle rugosa
dove poter ancora resistere
ho dimenticato i semi di melagrana e
non ricordo più qual è il mio compito
quanta luce arde il sole
io cammino non ho memoria dei passi della fuga
il cemento ha distratto chi mi insegue
non comprendo altro ritorno che non sia demolizione
la dimora non emette suono
sono un mattino di fine giugno
perché mi chiamate sera d’autunno?
mia madre che ho generato
mi aiuta a partorire in
questa lunga giornata estiva
stesa nel campo d’orzo
sotto un sole di ferro arrugginito
ma non vedo uscire nulla dal mio utero
solo liquido amniotico che lei
asperge sul campo e una
placenta livida e maleodorante che lei
dà in pasto agli animali fermi sul
margine del bosco di pioppi bianchi
dov’è il mio frutto? il partorito?
nell’utero solo le mie dita
io sono ancora un mattino di fine giugno e tu
da me generata che mi chiami figlia
parli dell’autunno e del ritorno
mi dici che lì sotto questa terra che
stai fecondando con il mio ventre
lì sotto c’è la dimora
la mia dimora
non esiste una vera posizione del piacere
il fiato sul collo è il mio
le mani sul ventre sono le mie
le dita nel mio utero cercano con misura
una piega tra la pelle rugosa
dove poter ancora resistere
ho dimenticato i semi di melagrana e
non ricordo più qual è il mio compito
quanta luce arde il sole
io cammino non ho memoria dei passi della fuga
il cemento ha distratto chi mi insegue
non comprendo altro ritorno che non sia demolizione
la dimora non emette suono
sono un mattino di fine giugno
perché mi chiamate sera d’autunno?
mia madre che ho generato
mi aiuta a partorire in
questa lunga giornata estiva
stesa nel campo d’orzo
sotto un sole di ferro arrugginito
ma non vedo uscire nulla dal mio utero
solo liquido amniotico che lei
asperge sul campo e una
placenta livida e maleodorante che lei
dà in pasto agli animali fermi sul
margine del bosco di pioppi bianchi
dov’è il mio frutto? il partorito?
nell’utero solo le mie dita
io sono ancora un mattino di fine giugno e tu
da me generata che mi chiami figlia
parli dell’autunno e del ritorno
mi dici che lì sotto questa terra che
stai fecondando con il mio ventre
lì sotto c’è la dimora
la mia dimora