*
penso di essere solo un presentimento
un sottile soffio di energia non espressa
un sollievo senza leggerezza
la differenza tra il colore e la sua idea
© sofia demetrula rosati

sofia demetrula rosati
*
penso di essere solo un presentimento
un sottile soffio di energia non espressa
un sollievo senza leggerezza
la differenza tra il colore e la sua idea
Estraniante effetto produce la spaziatura che interrompe il flusso sintattico e si pone in contrapposizione al respiro che, pure, nell’inversione è continuo. Le tre poesie inedite che Sofia Demetrula Rosati riserva alla pubblicazione su Trasversale, sono tutte scandite su questo levare privo del battere. Non mancanza di ritmo, ma un continuo riproporre la nota iniziale, quasi che a ogni sillaba si trattasse di cominciare di nuovo e subito divellere il costruito. Una sorta di vacillamento che, in realtà, è un tenace attaccamento alla percezione, al presente, che appare quasi slegato e sregolato: tutto si concentra in esso, nessun passato e meno che mai futuro. Non che il riferimento manchi, anzi, è esplicitato solo per meglio azzerarne il valore. Il risultato è una singolare epochè esistenziale, che dona un clamoroso risalto a un esistere che non ha bisogno di lanciare in direzioni temporali la corda di salvataggio, il proprio ancoraggio.
Assistiamo, in tal guisa, alle oscillazioni di una versificazione in cui il vero snodo fra i gruppi di sostantivi e di aggettivi e dei rari verbi è una zona franca, uno spazio vuoto. La sospensione riattiva, o meglio, fa esplodere, la molteplice fioritura di sensi, ma solo per compattarli in un eterno presente. Istante da laboratorio, da messa a punto, quasi sperimentale, ove ogni oggetto linguistico assume la meravigliosa capacità del prisma di proiettare sulle pareti alcunché di diverso dall’oggetto fisico: il dato di partenza è del tutto trasfigurato.
La macchina testuale, messa a punto da Sofia Demetrula Rosati si configura come un artificio atto a produrre una sorta di spazio in cui la poetessa letteralmente abita, unico spazio che le è congeniale. Le false fughe, solo dichiarate, “in fretta mi scopro con cura mi ricopro”, da una condizione esistenziale non soddisfacente, non traggano in inganno. A vedere in quale modo siano d’un colpo fatti fuori desiderio, contributo della mente e immaginazione, c’è da essere certi che ben altre siano le condizioni designanti la stanza testuale congegnata, visto che persino le ‘espressioni’ vengono marchiate come ‘neglette’.
A nostro avviso, in particolare, la seconda poesia, contiene una dichiarazione di poetica, di quelle che oggi è raro trovare in un poeta, essendo molto in voga l’assunzione di qualche tesi filosofica recepita passivamente. Crediamo che in “essere” ci sia un disegno paradossale, del tipo di quelli immaginati da M. C. Escher, in cui si riesce a tracciare quasi una spirale che risucchia se stessa, un avvitamento quadruplo, in cui essere, idea, azione, linguaggio, tutti tacciati di tradimento se assunti in senso assoluto e non relati l’uno all’altro in una continua indissolubile metamorfosi, gettino il seme risolutivo in un terreno che mentre avvelena, fa germogliare. Il presente, essendo eterno, solo se è sperimentale.
Rosa Pierno
ho paura di scrivere
vorrei lasciare una traccia profonda
un solco senza semina ho paura di scrivere
esistere è diventato diga dal desiderio
vorrei che questa giornata con questo sole di fine estate
non finisse più vorrei vivere eternamente così
morire in questo istante che differenza c’è?
vorrei voglio ho dismesso il desiderio tutto è soddisfatto
tutto da rifare senza il contributo della mente senza l’implicazione
non esistono più i fiocchi rossi e le dita alate dei giorni di magia
ho visto il sole all’orizzonte e ho pensato di poterlo inseguire ma è
sempre attesa d’alba e il rosa alla fine stanca
non è possibile fermarsi occorre
vivere tutti i giorni che ci restano
anche quelli non calcolati ho paura di scrivere
inarco la fronte per le espressioni neglette
in fretta mi scopro con cura mi ricopro
essere
essere senza tregua senza testimoni
costretti a proseguire un discorso di pietà
pur senza osare uno sguardo di compiacenza
con le retine oscurate per non
avere attrattive se non la proprietà
di un verbo che non è un’azione
ma l’esigenza di un universo che implode
riavvolgendo la sua storia
con l’unico obiettivo di tornare
a quel non dato dell’essere che
finalmente posa un corpo larvato
nel tradimento di una metamorfosi
resa muta dalla sua stessa idea
eravamo persone semplici finché non si ruppero le dighe
ciascuno aveva il suo dilagamento oleoso da gestire
le dighe un lavoro continuo quella la nostra umiltà e
umiliazione devota con lo sguardo interrotto inabilitato a capire
il contenimento l’unica urgenza la semplicità era la nostra pelle
le urla sommerse un forsennato dolore poi
un giorno in un determinato istante sincronico un’unica frana
e le prospettive si sono impossessate del paesaggio circostante
non sembrava ci fossero ombre sguazzavamo liberi
nei pantani oleosi e ascoltavamo accordandole
tutte le urla ora emerse una ad una
c’era molto da fare da costruire misurare squadrare
riprendemmo un lavoro continuo senza umiltà e
umiliazione increduli incostanti con
lo sguardo sfacciato e pretenzioso
non ho mai capito se quel determinato istante sincronico
sia stato voluto o subìto non ho mai creduto che
la semplicità sia solo un orrendo vissuto
desidero lapidare
quel sentire che non
ascolta ma richiede a
l’infinito un termine
ho partorito un utero e
mi ci sono cucita dentro
cercano e non mi trovano
tracciano perimetri della mia corporeità
il pavimento è disseminato di rilevatori meccanici
ma le voci registrate le ho con me
l’esercizio dell’azione di ricerca è svolto in
coincidente considerazione dei fatti
ma la versione esatta dei fatti
è impossibilitata
dimezzati dalla disperazione del senso
sono seduti in ampi spazi sterrati e
tirano piccole pietre a pelo d’acqua
mentre accarezzano le loro calde pance molli
un intenso aroma di arance li assale